Fino a che non è toccato a me, non ho mai avuto alcun interesse nei libri sui bambini e per i bambini, nelle teorie educative e sinceramente nemmeno nei bambini stessi. Anzi, sono una delle persone meno mamme che io conosca… Eppure quando è nata la mia bambina (ma anche prima, complice la mia mania di studiare, e di pensare che se c’è un manuale per qualsiasi cosa, quel manuale sarà mio e mi farà sentire al sicuro) è stato naturale per me cercare letture che mi dessero qualche consiglio, incoraggiamento, evidenza scientifica che non ero proprio un disastro.
Tra i vari tomi nei quali mi sono imbattuta, c’è stato anche “Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni”. Ad attrarmi è stato non solo la promessa di felicità del pupo, ma anche quella della serenità del genitore, a dire il vero. Insomma, speravo di trovare qualche riposta ad una delle domande che mi faccio più spesso: “Ma Beatrice sarà felice? Sará felice con noi come genitori?”
In realtà il Metodo Danese mi è sembrato un libro carino e con qualche spunto utile, certamente non rivoluzionario: insomma, dettato in molte cose dal caro vecchio buon senso delle nostre nonne. E se fosse poi questa la soluzione? Una casa confortevole, dei genitori affettuosi ma fermi, il lasciare il bimbo giocare solo, ma consapevole di essere, semplicemente, banalmente, circondato di amore?
Dopo tredici anni di ricerca e collaborazione, Iben Sandahl, psicologa, e Jessica Joelle Alexander, giornalista e sposata con un americano, dicono di aver trovato quella famosa ricetta che rende la Danimarca da anni uno dei paesi in testa alle classifiche di Felicità: l’educazione dei bambini e la vita familiare, che fanno sí che a pargoli felici corrispondano futuri adulti altrettanto contenti.
La parola Parent diventa acronimo di Play (gioco), Authenticity (autenticità), Reframing (ristrutturazione degli aspetti negativi), Empathy (empatia), No ultimatum (nessun ricatto), Togetherness (intimità familiare e hygge, la famosa hygge di cui ultimamente si parla tanto).
A me sono piaciuti molto alcuni concetti in particolare. Intanto, l’insegnare ai bambini la resilienza, che non si coltiva evitando lo stress e la tristezza ma imparando a padroneggiarle (e il gioco è l’antistress per antonomasia, dunque mai pensare che, se i nostri bambini stanno giocando per conto loro, stanno perdendo tempo che potrebbe essere utilizzato in attività più educative). Il fatto di non nascondere le emozioni negative ai bambini, perchè questi non hanno bisogno di perfezione ma di onestà emotiva da parte dei loro genitori (e questo è uno sbaglio che io rischio continuamente di commettere). Ancora, il concetto di umiltà nel modello danese: umiltà è sapere così bene chi siete da non avere bisogno che gli altri vi facciano sentire importanti: no alle lodi sperticate volte a far sentire il bambino intelligentissimo e dotatissimo, sí alle lodi autentiche che instillano nel bambino il convincimento che “se ti impegni davvero puoi fare tutto”. E infine, l’empatia, il non giudicare: tutti hanno diritto di essere ascoltati e presi sul serio!
Molte cose sembrano a me, mamma italiana, abbastanza naturali in realtà. Mi rendo però conto che il testo usa spesso come controparte al genitore svedese quello americano. La società americana e il metodo educativo vengono descritti come volti a instaurare nel bambino la massima fiducia in se, quasi convincerlo di essere invincibile e super intelligente. Ma un bimbo che si crede intelligentissimo e dotato di eccessiva autostima, nel momento in cui si troverà davanti a qualcosa che non riesce a risolvere, cosa farà? Non sarà stimolato ad impegnarsi, dicono, perchè è abituato a riuscire naturalmente. Oppure sarà frustrato: se non riesco, ciò significa che non sono poi così intelligente?
E mi sono resa conto che alcune cose a me scontate non lo sono in realtà per altri modelli educativi. Io sono cresciuta con una nonna che mi lasciava giocare per conto mio mentre cucinava o faceva i lavori di casa, che quando ero annoiata mi dava fagioli e piselli da sgranare, che una volta finiti i miei compiti mi lasciava guardare un’oretta di cartoni, e mi portava a giocare fuori ai giardini non appena il clima si faceva più caldo. Nessuno a casa ha mai pensato di darmi cose in più da fare, compiti aggiuntivi, attività extrascolastiche eccessive se non un normale sport tre volte alla settimana. Hanno cercato di farmi interessare un pochino ad uno strumento, ma io non ero affatto portata nè interessata, e la cosa é finita lí. L’unica cosa che davvero era non negoziabile erano appunto lo sport e l’impegnarmi a scuola, comportarmi bene a casa. Insomma, avevo un certo margine di scelta all’interno di una cornice di leggi non discutibili (e questo è anche uno dei capisaldi del Metodo Maman, ma questa è un’altra storia, e un altro post).
Se guardo alla società intorno a me, quella asiatica, vedo bambini stanchi, doposcuola infiniti, potenziamenti in matematica e scienze fin dalle prime classi elementari, English phonics e flashcards fin dalla primissima infanzia, violino o pianoforte come imposizione, una questione di disciplina e non di passione per la musica o semplice gioco, divertimento. Una società nella quale però ho avuto colleghi e incontro persone cresciute in questo sistema incapaci di fronteggiare un’emergenza, di essere flessibili, di prendere decisioni consapevoli e di assumersi responsabilità. Persone che affrontano un fallimento con comportamenti estremi e opposti, con superficialità e un’alzata di spalle oppure con gravi depressioni e negatività esistenziale.
E allora mi dico, certi consigli, certi manuali, sono poi cosí scontati?
Veronica, Taipei
Gentile signora,
mi permetto, come babbo di due gemelli in eta’ scolare, un garbato dissenso. Un “normale sport tre volte alla settimana” non e’ affatto poco per bambini che il costume attuale della scuola in Italia vuole oberati di compiti a casa. Se tre pomeriggi se ne vanno per lo sport, fatti i compiti poco resta.
Caro Francesco, grazie per il commento. Purtroppo non conosco la realtà scolastica italiana a fondo, ma nel post parlavo di me stessa, che sono andata a scuola elementare in un’epoca in cui si andava solo al mattino. Il succo del discorso rimane comunque uguale, spero 🙂 Veronica
Oberati di compiti…non lo so…mia madre quando ha visto i compiti di mia figlia si è messa a ridere! Però ecco mia figlia non fa il tempo pieno e secondo me questo conta tanto.
Comunque io credo che moltissimo dipenda dalla cultura di appartenenza e dalla cultura che ci circonda. Credo che non ci siano manuali che tengano perché tutto dipende, da te, dal bimbo, dal numero di bimbi che si ha.
Ho passato i primi anni a mangiare i libri che mi insegnavano a non essere autoritaria, ma autorevole, a dare affetto e mettere il bambino al centro di ogni preoccupazione materna. Ma poi ho fato 3 figli in 4 anni e me li sto crescendo da sola con un padre che lavora sempre. E ho mandato a quel paese i manuali!